Caso ‘Samara’, come una challenge diventa ‘malattia psicogena di massa’. Parla la sociologa Cappabianca
A cura della dottoressa Rossella Cappabianca
“Le reti di influenza possono essere responsabili della diffusione di diversi sintomi di disagio psicologico e socio-relazionale. Anche altri comportamenti in un certo qual modo di “assenza sociale” e/o autodistruttivi possono diffondersi nello stesso modo. È quello che sta alla base di questi episodi definiti dai social “casi Samara” in riferimento ad un film del genere horror. Ne consegue, sul piano comportamentale, una sorta di “malattia psicogena di massa” per cui al manifestarsi di un atteggiamento deviante se ne verificano altri con un effetto cosiddetto a “macchia d’olio”. Il tutto amplificato e rafforzato dall’immediatezza comunicativa garantita dalle diverse piazze sociali, in cui ognuno esprime arbitrariamente
la propria opinione generando a suo volta il “caso mediatico” ed una serie di catene di ipotesi che non fanno altro che alterare e denaturare le cause sociali che sottendono questi fenomeni. La vera preoccupazione è lo stato di “isolamento sociale” che si trovano a vivere i giovani, con il grande “vuoto” che lascia loro, e a noi tutti, la “realtà virtuale” dove tutto viene fatto credere e mostrato in maniera amplificata, facendo perdere di vista gli obiettivi concreti, l’autenticità delle relazioni e dei rapporti emotivo-sociali. I social, paradossalmente, sono anche un mezzo attraverso il quale oggi si trasmette un pensiero, il desiderio
di un’emozione che si vorrebbe vivere, di un dolore che si vuole comunicare, questo perché c’è bisogno di essere “ascoltati”. I ragazzi in questo modo, a volte, non fanno altro che comunicarci il loro “bisogno di essere ascoltati” o il loro senso di frustrazione rispetto ad una realtà sempre più basata sull’individualizzazione.
Si crea un processo di co-causazione circolare per cui il comportamento deviante è a sua volta una conseguenza di una devianza sociale. In altre parole, i giovani in questo modo comunicano un disagio che attraverso la diffusione tramite i social viene quasi “legittimato” sottovalutandone il forte potere diseducativo. Questo è quello che ci deve spaventare e su cui dobbiamo riflettere.
A mio parere, al di là di maggiori forme di controllo sulle piazze sociali che i grandi “Imperi Social” dovrebbero attuare, come ho ribadito in più occasioni, occorre elaborare delle strategie educative volte ad un rafforzamento delle relazioni concrete, di forme associazionistiche di auto mutuo aiuto. I piccoli contesti potrebbero essere avvantaggiati in questo, anche se ci si scontra spesso con il pregiudizio e con forme di etichettamento. I tempi della consapevolezza si sa sono lunghi, come anche quelli del cambiamento, ma bisogna iniziare”.
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